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- Quando il 7 luglio di 144 anni fa Carlo Collodi affidò la prima puntata della sua Storia di un burattino al «Giornale per i bambini», non poteva immaginare che Pinocchio sarebbe diventato un successo planetario.
- Alcuni studiosi hanno messo in relazione la figura di Geppetto con quella di Victor Frankenstein, ponendo l’attenzione sulle diverse modalità di essere padre di questi due personaggi.
- Chi dei due creatori è anche padre? Chi decide di far fare un percorso filiale alla propria creatura?
Quando il 7 luglio di 144 anni fa (era il 1881) Carlo Collodi, pseudonimo di Carlo Lorenzini, affidò la prima puntata della sua Storia di un burattino al «Giornale per i bambini», non avrebbe immaginato il successo che la sua “fiaba” avrebbe avuto nel tempo. Tradotto in 260 lingue diverse, ha visto molteplici riduzioni cinematografiche e teatrali. Lettura apparentemente semplice, offre una molteplicità di interpretazioni: dalla letterale alla simbolica, fino a quella iniziatica ed esoterica.
Frutto di una tradizione che risale ad Apuleio e a quel capolavoro assoluto della letteratura antica che è le Metamorfosi o L’asino d’oro, il Pinocchio dello scrittore fiorentino rimane un best e long seller immediatamente riconosciuto da Benedetto Croce, il quale intuì che il legno di cui era intagliato Pinocchio è tutta l’umanità. L’ultima della tante edizioni del libro è quella della casa editrice Giunti, data alle stampe nel mese di aprile di quest’anno.
Geppetto, Pinocchio e Frankenstein

Recentemente alcuni studiosi, fra cui Thomas Noémie (Louvain, 2017), hanno messo in relazione la figura di Geppetto con quella di Victor Frankenstein (il creatore del “mostro” nel romanzo di Mary Shelley, Frankenstein o il moderno Prometeo) ponendo l’attenzione sulle diverse modalità di essere padre in questi due personaggi emblematici. E forse non è un caso che Guillermo del Toro ha, fra i suoi capolavori, diretto sia il film d’animazione Pinocchio sia Frankenstein, che sarà fruibile il prossimo novembre su Netflix.
In particolar modo Franco Nembrini, riprendendo le sollecitazioni del cardinale Biffi, ha sottolineato l’aspetto pedagogico del testo in generale e rimarcato la paternità positiva che emerge in Geppetto.
Dalla lettura in parallelo delle diverse chiavi interpretative, potrebbero emergere delle indicazioni interessanti sulle diverse Weltanschauung che dettano modalità opposte di essere, di fronte all’altro da sé che, in ultima istanza, è il “figlio”.
Chi è Victor Frankenstein, il creatore?
Victor Frankenstein è un uomo ossessionato dall’idea di dare vita alla materia. È il razionalista-creatore, convito assertore della possibilità infinita della ragione umana di giungere al mistero della vita. Victor è fratello del Faust di Goethe o del Satana del Paradiso perduto di Milton, vittime e carnefici in virtù di un atto di hybris iniziale (come quella del mitologico Prometeo) che deriva da una tracotante superbia.
Frankenstein si accorge di aver creato un essere deforme e dalla forza smisurata e per questo lo ripudia, senza nemmeno dargli un nome. L’essere sarà chiamato infatti, nel corso del romanzo, creatura, cosa, mostro. Il razionalista Victor ha creato qualcosa che non corrisponde al suo progetto e per questo si rifiuta di dargli persino la dignità del nome, che è in grado di attribuire una identità e una appartenenza. Non riconoscendo la “creatura”, Frankenstein gli nega l’esistenza nel consorzio umano e la possibilità stessa di un processo di formazione. Victor dimostra di vedere soltanto quanto rientra nella sua progettualità, e questa sarà la sua dannazione: da puro razionalista non è in grado di vedere la realtà nella sua interezza. Di questa realtà ignora non tanto e non solo i limiti, quanto gli imprevisti di cui essa è imbastita.
Quando pensiero e realtà divergono
Pur di far coincidere il suo pensiero con la realtà, Frankenstein distrugge tutto ciò che gli sta accanto, compresa la moglie Elizabeth. La creatura viene ripudiata perché non corrisponde a ciò che lui credeva, a ciò che si aspettava, fino a renderla inevitabilmente un mostro. Lo scienziato è incapace di essere padre perché non sa amare, non sa accompagnare nell’abbrivio di una ripartenza, neanche con un “non avere paura”.

Creatore e creatura condivideranno lo stesso destino di distruzione, nel tentativo irrisolto di inseguirsi a vicenda e di vendicarsi reciprocamente, perché, in fondo, sono il riflesso l’uno dell’altro. In questo sfrenato dissolversi reciproco emerge l’impossibilità di un rapporto dentro una relazione/non relazione in cui la proiezione narcisistica perversa non dà spazio all’alterità e alle domande vere dei due. È un atteggiamento non molto lontano dall’esperienza quotidiana, presente soprattutto quando ci si comporta da “creatori” con una persona che si dice di amare o voler bene. Gli sforzi del creatore sono direzionati a compiere ciò che si è progettato per l’altro o l’altra, impedendo a questi ultimi la possibilità di avere un nome, cioè una propria identità, una propria personalità e un proprio modo di vedere le cose.
In questo modo l’altro o l’altra diventa un fallimento e si trascorre il tempo o nel pentimento o nella impossibilità di poter trovare un punto di aggancio con l’alterità, alla quale si consegna la vergogna di essere come si è e la paura di mostrarsi al mondo. Di tutt’altro genere è la posizione di Geppetto.
Geppetto di fronte al suo Pinocchio
Mastro Ciliegia, intenzionato a costruire da un pezzo di legno il piede di un tavolo, inorridisce di fronte al fatto che quella materia inerte parla, e ha un atteggiamento simile al dottor Victor Frankenstein: non riuscendo a capire e non potendo fare ciò che pensava, lo dismette, consegnandolo a Geppetto. A differenza di mastro Ciliegia, Geppetto compie due gesti importanti: dà un nome alla sua creatura e lo chiama figliolo, definendosi lui stesso padre. E come tale si comporterà per il resto del racconto. Accompagnerà Pinocchio, introducendolo alla vita, si sacrificherà perché il “figlio” abbia un avvenire (ad esempio, vendendo la giacca per comprare l’abecedario), andrà costantemente alla sua ricerca, quando per un motivo o per un altro Pinocchio si lascerà tentare dalle sirene della “vita spensierata”. Andrà persino in prigione per colpa sua, nonostante l’apparente indifferenza del burattino.
«Babbino mio, se tu fossi qui»
Pinocchio lo chiamerà “babbo” solo nel settimo capitolo, quando, uscito di prigione, Geppetto busserà alla porta di casa. Nonostante questo, il burattino ne combinerà di tutti i colori e si caccerà costantemente nei guai, incurante del padre e della sua coscienza, il Grillo Parlante, che proverà a far tacere a martellate. Eppure Geppetto continua a essere un “creatore” buono, disposto, come nella parabola del figliol prodigo, ad accogliere incondizionatamente Pinocchio. Lo amerà così come è, senza scandalizzarsi di nulla.
Geppetto non inorridisce di fronte alla sua creatura come Victor Frankenstein. Quando Pinocchio tocca il fondo (sta per essere impiccato), nel burattino sopravviene un sussulto di coscienza e di ragione: «Babbino mio, se tu fossi qui». Nel buio più profondo, Pinocchio si riconosce finalmente figlio e individua in Geppetto la figura positiva di riferimento. Il burattino comprende la fonte dell’amore e ne ha sete. Come per il figliol prodigo comprende che nella casa del padre ha tutto quello di cui ha bisogno: uno sguardo capace di guardalo come nessuno mai lo ha guardato, capace di abbracciarlo come nessuno, in grado di accoglierlo senza le pretese di un “progetto”.
Per orientarsi fra testo e contesto
È allora che Pinocchio decide di intraprendere il percorso che lo porterà all’umanizzazione. Va alla ricerca del padre, anche oltre il mare. E sarà il mare, cioè l’infinito, il luogo dove si ritroveranno, nel ventre del pescecane che li aveva divorati entrambi. Dopo l’abbraccio per l’inaspettato incontro, Pinocchio chiede al padre come ha fatto a sopravvivere per due anni nel ventre del pesce. Per la prima volta il suo pensiero non è egocentrato ma eteroverso. Pinocchio stesso incoraggia il padre a non avere paura, lo accudirà e alla fine diventerà umano, rinascerà bambino. Per farlo avrà bisogno di essere “partorito” dalla Fata Turchina. Il cerchio della sua formazione si concluderà grazie al perdono ricevuto da lei, dopo aver preso coscienza di sé e dei propri atti.
Abituati come siamo alla critica tranchant e alla frettolosità, che non fa altro che confermare la nostra idea sul mondo, i nostri pregiudizi, Pinocchio e Frankenstein ci insegnano che essere padri e madri significa generare ogni giorno e riconoscere l’alterità, anche quando questa è “diversa” da come ci aspettiamo. Si genera però se ci si riconosce figli e, nel farlo, se si è in grado di giudicare senza escludere nessun fattore in gioco, dando respiro ai propri desideri e alle proprie domande, prendendo sul serio la propria vita.