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- Gianluca Diegoli cura una newsletter molto seguita, a cui sono iscritte più di 26 mila persone, in cui parla di marketing e dintorni senza prendersi troppo sul serio.
- Ha dedicato una delle ultime newsletter al Festival Cultural-Letterario in Provincia (FCLP).
- Conversazione a 360 gradi su ciò che spinge le persone a partecipare o meno a eventi di periferia che mettono al centro i libri.
Che poi oddio, provincia. Non immaginate Fitzcarraldo e il suo teatro trasportato in Amazzonia, arrivare qui è cosa di trenta minuti di treno dalla più vicina stazione ad Alta Velocità. Ma la provincia è più una questione di mindset che di isocrone, si sa.
È l’attacco del pezzo di apertura della newsletter di Gianluca Diegoli – il Venerdì di [mini]marketing – del 13 giugno 2025. Io sono uno dei suoi 26.284 (numero costantemente in crescita) “leggenti”. I temi, con al centro il marketing, spaziano tutte le settimane dai nuovi consumi alle forme più originali di autopromozione. Il 13 giugno l’argomento era il Festival Cultural-Letterario in Provincia (FCLP). Diegoli si chiede, giustamente, se queste manifestazioni servano davvero a vendere libri o non siano piuttosto un modo come un altro per spendere dei soldi. Scrive fra l’altro l’autore:
Il FCLP ha bisogno di nomi che siano conosciuti da chi non legge, questo è il triste segreto. Perché con i numeri di chi non legge, la maggioranza, alimenta direttamente o indirettamente un fatturato di truck food di tradizioni più o meno inventate, delle bandiere gialle degli agricoltori diretti che cucinano, l’indotto di bar e ristoranti che fanno il pienone solo in occasioni come queste, in cui il FCLP è la molla di economia comportamentale per non badare a spese, e mangiare nel ristorante della tua città in cui non andresti mai in un altro momento.
Per una testata come Elzevir, che si occupa di lettura e lettori, l’argomento è ghiotto. E l’intervista pure.
«La mia visione può essere a volte un po’ funzionalistica o materialistica – spiega Diegoli -. Però il mio è anche un punto di osservazione abbastanza ingenuo. Da fuori mi dico: servirà tutto questo giro di organizzazioni, inviti, soldi pubblici? Perché alla fine questi festival, la maggior parte, ci sono perché c’è qualcuno che li finanzia».
E gli editori che cosa ne pensano?
«Come dice una mia amica, Elena Ferrante non ha mai fatto una presentazione di un libro, ma ciononostante… D’altra parte qualche piccola casa editrice o qualche autore mi ha scritto dopo quella newsletter, dicendo che qualcosa si vende. Poi c’è il problema che però l’autore non viene pagato per le presentazioni. Quindi già i diritti non consentono di viverci nel 99,99% dei casi. Per cui quando all’autore viene pagata la trasferta, è già tanta roba».
Ma perché allora si continuano a fare questi festival?
«È un meccanismo che vive molto di ego. L’ego dell’autore, che comunque partecipa perché la presentazione del suo libro lo gratifica. Ego della rappresentanza dell’ente locale che vuole rimarcare il suo impegno nella cultura. Non parlo tanto dei grandi festival della letteratura, come ad esempio quello di Mantova, che hanno un impatto significativo sul territorio in termini di numeri. Parlo di quelli più piccoli i cui organizzatori tengono a ribadire di aver investito, anche quest’anno, in cultura».
Tu sei anche autore di libri. L’ultimo si intitola Seguimi! Il marketing come culto, il culto come marketing (Utet, 2025). Qual è il tuo rapporto con i FCLP?

«Lavorando nel marketing, sono abituato a sapere quante scatolette di tonno si vendono alla settimana. Spesso invece sapere quanti libri si vendono è un mistero. Se ci sono degli amici che mi invitano a fare una presentazione, e io ho tempo, ci vado volentieri. Più che altro per avere il contatto umano con il pubblico. Viviamo in un mondo digitale e quindi non nascondo la voglia di incontrare le persone direttamente. Nel mio articolo citavo ad esempio un’autrice “scoglionata” che probabilmente partecipava per l’ennesima volta a una presentazione. È anche vero che c’è un nuovo modello di scrittore o scrittrice che ha un suo following. E non mi riferisco a quelli che sono diventati delle celebrity sui social e poi hanno scritto un libro, quanto piuttosto a chi ha una community che può incontrare grazie alla presentazione di un libro».
Se dovessi fare una consulenza di marketing agli organizzatori di un FCLP, come la imposteresti?
«Mi trovo in difficoltà quando devo fare delle consulenze in cui l’obiettivo non è il conto economico. E temo che in questi casi non lo sia. Alcuni di questi festival ad esempio hanno l’obiettivo di spendere i soldi del PNRR. Persino la scelta degli autori deve rispondere a questa logica. Va anche detto che ci sono certi posti fuori dai flussi turistici maggiori, o comunque più isolati, in cui per fortuna che almeno si fanno questi festival. Che è un po’ la conclusione del mio articolo: il FCLP è meglio che esista che non esista, perché male non fa. Poi, se proprio dovessi fargli una consulenza, mi orienterei su libri e autori più contemporanei. Ad esempio, non tutto quello che esce dai social o da TikTok è da buttare».
Resta da capire che cosa spinge le persone, giovani o meno giovani, a leggere.
«Per rispondere a questa domanda, bisogna partire dal presupposto che chi ascolta Spotify, per la maggior parte, non è interessato alla musica. Può sembrare controintuitivo, però è così. Analogamente, anche la maggior parte delle persone che leggono, non è appassionata di libri. Pensare agli appassionati è sempre distorcente rispetto al mercato. Se andiamo a vedere le classifiche di Amazon, ad esempio, scopriamo che ai primi posti non c’è la narrativa. C’è la manualistica, ci sono i testi sull’“aiutami a fare qualcosa”. È un po’ come la mania, l’ossessione che si trova su internet sul miglioramento che si riversa anche nell’editoria. La letteratura è una nicchia. Se i lettori forti in Italia sono un milione, dico una cifra a caso, ci sono altri 40 milioni che non sanno chi ha vinto lo Strega».
Che tipo di lettore è Gianluca Diegoli?

«Ho dei gusti abbastanza personali. Leggo molti autori tradotti dell’Est. Credo che in Italia, e forse in Europa, manchi la consapevolezza delle altre letterature. Se c’è una cosa che mi dà un po’ fastidio in Italia è la scrittura “letteraria”. Chiamare la “faccia” con espressioni come “le gote”. Stephen King diceva: scrivete come mangiate. Apprezzo degli scrittori dell’Est, almeno di quelli che conosco, una specie di ruvidezza, una scrittura che non si perde nella forma».
Qualche nome?
Recentemente ho riletto tutto Ivo Andrić che trovo di una semplicità e di una grande potenza, nonostante le sue opere risalgano a circa 80 anni fa. Oppure Robert Perišić, uno scrittore croato di cui Bottega Errante Edizioni ha tradotto I prodigi della città di N. e Disastri esistenziali e spese folli. O ancora Georgi Gospodinov che, da quando ha vinto il Premio Strega europeo nel 2021 e l’International Booker Prize nel 2023, è diventato un po’ una star internazionale».